Il sesso non è ancora considerato una variabile biologica

 

 

ROBERTO COLONNA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 06 marzo 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Considerare il sesso come variabile biologica nella ricerca di base è una necessità avvertita da tempo da molti dai ricercatori ma, nonostante i buoni propositi degli istituti di ricerca più resistenti al cambiamento, e l’impegno militante di vari gruppi di ricerca, soprattutto statunitensi, le cose sono cambiate poco. Da anni siamo impegnati nel sostenere questo importante cambiamento nella realizzazione dei campioni sperimentali, come sa bene chi segue le nostre “Note e Notizie”, ma abbiamo l’impressione che la questione sia ancora sottovalutata da molti. Non si tratta, come hanno spiegato numerose volte le ricercatrici più attive in questo campo, di una battaglia femminista, in quanto il problema non è avvertito particolarmente nella ricerca su esseri umani nella quale i campioni sono bilanciati per sesso nella massima parte dei casi e, nei casi in cui esiste uno squilibrio – come abbiamo più volte sottolineato a proposito della ricerca sulle molecole ad azione antidepressiva – questo è a favore delle donne[1]. Il problema, infatti, riguarda prevalentemente la ricerca preclinica condotta su roditori.

A volte, in passato, ci è capitato di menzionare tra le cause dell’altissimo numero di studi condotti solo su roditori maschi fattori pratici banali quali la più agevole gestione della stabulazione, una maggiore semplicità e regolarità endocrinologica, il gran numero di precedenti che incentiva la ripetizione per un miglior confronto con lo stesso tipo di campione, ecc., ma Rebecca M. Shansky e Anne Z. Murphy, che studiano da tempo e con impegno il problema di questo errore di costituzione dei campioni, sostengono che sia in gioco una questione culturale, che richiede un cambiamento di concezione, mentalità e atteggiamento.

(Shansky R. M., et al. Considering sex as a biological variable will require a global shift in science culture. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-021-00806-8, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Neuroscience Institute, Georgia State University, Atlanta, GA (USA); Department of Psychology, Northeastern University, Boston, Massachusetts (USA).

Per oltre mezzo secolo i roditori maschi sono stati considerati organismo-modello di default nella ricerca neuroscientifica preclinica; un assunto convenzionale che, secondo Shansky e Murphy, ha contribuito a innalzare notevolmente i livelli di diagnosi erronee ed effetti collaterali indesiderati da trattamenti farmacologici nelle pazienti, rispetto ai pazienti.

Lo studio accurato e sistematico in entrambi i sessi potrebbe aiutare a rettificare questi problemi che si possono considerare, anche se indirettamente, di salute pubblica. Ma, cosa preclude, o quantomeno ostacola, il cambiamento di rotta? Secondo Shansky e Murphy, le strutture di incentivazione per la pubblicazione degli studi sperimentali e i requisiti per l’avanzamento nella carriera costituiscono un reale deterrente per molti ricercatori al cambiamento di rotta.

Un altro aspetto sottolineato dalle due ricercatrici e che le agenzie di finanziamento (istituzioni che erogano fondi) che hanno varato direttive (di cui abbiamo parlato nel recente passato) allo scopo di imporre l’inclusione di entrambi i sessi in proporzioni equilibrate, vincolando l’ottenimento del grant al rispetto delle regole, non hanno strumenti adeguati per verificare se i requisiti necessari per accedere alle sovvenzioni continuino ad essere rispettati.

Le due ricercatrici propongono un focus sulle aree molecolari, cellulari, sistemiche e comportamentali delle neuroscienze in cui sono state identificate differenze sessuali fondamentali, dimostrando che una scienza realmente rigorosa deve necessariamente includere entrambi i sessi nelle osservazioni sperimentali.

Shansky e Murphy, al termine delle loro argomentazioni, per il cui dettaglio si rimanda alla lettura del testo pubblicato come Perspective in Nature Neuroscience, fanno istanza alla comunità neuroscientifica per un “cambiamento culturale e strutturale nel modo in cui si conduce la ricerca e si valuta il progresso scientifico, ridisegnando i nostri sistemi meritocratici professionali e gli standard sperimentali perché si produca un più equilibrato, rappresentativo, e perciò “traducibile in clinica”, corpo di conoscenza.

Non possiamo che sottoscrivere l’istanza, sperando che questa volta, finalmente, si corregga la rotta e gli studi con perfetto equilibrio e adeguata specificità per i due sessi non costituiscano più la minoranza.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Roberto Colonna

BM&L-06 marzo 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Le donne sono state molto più numerose degli uomini nella sperimentazione umana che ha portato all’approvazione degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e, solo dopo anni di verifiche cliniche, si è accertato che la loro efficacia sui pazienti di sesso maschile è molto minore che sulle donne; tanto che molti psichiatri per un certo periodo di tempo sono tornati alla prescrizione dei triciclici (imipramina, amitriptilina) negli uomini.